È domenica 21/11/1999, e sono circa le 12:45 quando un colpo di clacson da inizio a questa storia.
In quella macchina ci sono Ennio e Angelo “er Pulenta”, due grandi romanisti che ora tifano dal cielo. Al suono di quel clacson, un bambino si precipita giù per le scale senza neanche affacciarsi perché ormai ha imparato a riconoscere il segnale per quante volte l’ha sentito, e nei vecchi palazzi popolari di Tormarancia l’ascensore non c’è. È il segnale che significa “scendi, si va allo stadio”.
Quel giorno però è diverso. Quel bambino di 8 anni di partite ne ha già viste decine all’Olimpico, ma quella mai, e da quanto l’aspettava. Quel bambino sono io, che come ogni domenica andavo a pranzo da nonna e aspettavo il suono del clacson della macchina der Pulenta per andare allo stadio con mio zio Ennio, e quella partita è Roma-Lazio, che da tutti sarà ricordato come l’ultimo derby del millennio, ma dentro di me rimarrà impresso come “il primo”.
In questo pezzo, mi scuseranno i lettori, non voglio tanto parlare di risultati e marcatori, figuriamoci di tattiche e disposizioni, ma di quel derby del millennio come fai a non citare il 4-1 finale alla squadra che vincerà lo scudetto a fine anno? 4 gol nel primo tempo. Che inizio.

Vincenzo Montella esulta dopo il quarto gol della Roma nel derby de 21/11/1999 dopo soli 31′.
Ecco, quando mi chiedono “cos’è per te il derby?”, io rispondo sempre raccontando storie come questa. Sono storie di vita umana, di sensazioni interiori e di aneddoti, e ognuno di noi ha i suoi. Storie di riti, di scaramanzie becere e di denigranti sfottò. Ci si attacca proprio a tutto. Ancora oggi, e solo al derby, percorrendo Ponte Duca d’Aosta alzo lo sguardo verso la Madonna che troneggia su Monte Mario ed in base alla lucentezza dei suoi riflessi pretendo di capire se sarà una buona giornata. Sacro che si mischia a profano.

La Madonna dell’istituto Don Orione, distrutta da una tromba d’aria nel 2009 e restaurata per volere di papa Benedetto XVI. Sotto, la Curva Sud.
Ne avrete viste e sentite tante anche voi lettori, magari vissute. Amici fraterni, parenti, anche fidanzati divisi dalla fede calcistica, che per un giorno diventano acerrimi nemici, sportivi s’intende.
La settimana, o le settimane, che precedono il derby di Roma provocano un misto di emozioni unico. Che se un giorno ci addormentassimo per anni e fossimo ricatapultati improvvisamente in città basterebbe annusare l’aria per accorgersi immediatamente: “c’è il derby”. L’ aria del derby. La senti, la percepisci sempre di più giorno dopo giorno. Continui la tua vita come se niente fosse, ma fondamentalmente niente ha più senso se non quello di accorciare l’attesa. Si lavora, ma il cervello è già li. Si va a scuola ma distrattamente. E vaglielo a spiegare alla professoressa di letteratura greca che quel giorno, di studiare Sofocle, non era proprio cosa. E menomale che ho avuto un padre con le mie stesse malattie mentali che non mi ha mai rimproverato per quell’insufficienza.
Siamo malati mentali. Si. Pensateci. Perché fondamentalmente è una partita. Anzi spesso è una partita tra squadre con scarse ambizioni di successo. Cosa dovrebbero dire i Colchoneros, che hanno perso due finali di Champions dai rivali cittadini, o i tifosi dello United, che si sono visti sfilare uno scudetto all’ultimo secondo dai Citizens, o gli interisti e i milanisti che nei derby si sono giocati scudetti e semifinali di Champions league? Eppure parlandoci, avendo avuto la fortuna di poter viaggiare e confrontarmi con queste tifoserie, scopri che non la vivono in questo modo, che è nostro e forse di pochi altri.
È una passionalità che ha travalicato anche il tempo, che indubbiamente ha lasciato il suo marchio su questo rito. “Non è più il derby di una volta”. Te lo dirà ogni generazione, difendendo gelosamente il suo ricordo primordiale del rito. Io stesso sono cresciuto con derby diversi. Erano i derby di inizio millennio e lo stadio si riempiva già molte ore prima per la consueta “battaglia degli striscioni”, un botta e risposta a colpi di graffianti sfottò e goliardia tra le due curve.

Striscione goliardico, Ottobre 2001.
E poi l’attesa per la coreografia, (che continuiamo a chiamare erroneamente perché sarebbe una scenografia, ma chissenefrega!) la fuga di notizie sulla frase dello striscione in basso e l’ipotizzare col vicino cosa avremmo sfoderato in base al colore del cartoncino che ci veniva dato dai ragazzi. E poi spesso manco lo sapevi come era venuta, se non a casa il giorno dopo, mica c’era instagram.
L’attesa. L’attesa è una componente fondamentale di quel processo che scatta dentro i tifosi della capitale nella settimana del derby. È un istinto primordiale che nemmeno internet e la rivoluzione dei media è riuscita a sconfiggere. Ti fa sentire male, è vero, ma ti fa sentire vivo. È qualcosa di incontrollabile, che sfugge anche alla nostra conoscenza tecnologica. Ed è bello è vitale. è vita.
Il derby è un entità che pensa e che agisce. È una ruota distribuisce gioie immense e dolori profondi che spesso non riesci a scindere dalle cose della vita. A volte ho pensato veramente ci fosse una regia. Come quella domenica di fine settembre in cui, dopo un estate a leccarci le ferite del 26/5, e nel mio caso ferite di cuore, la sud, me compreso, ricordò ai dirimpettai come non c’è sconfitta più grande di non portare il nome ed i colori della città. Il 2-0 fu una logica conseguenza. Quel giorno i romanisti si riconciliarono con il derby. Per me, e chissà quanti altri, fu una vera e propria riconciliazione con la vita.

22/9/2013. Roma-lazio 2-0.
Manca poco ormai. Saremo in minoranza sugli spalti e pure sfavoriti nei pronostici. Un manipolo di duri sognatori pronti a difendere la nostra essenza con ogni mezzo lecito. Se siete ancora in dubbio, cari lettori, spero che questo breve racconto vi convinca ad unirvi a noi. I riti, si sa, si celebrano al tempio.
Domani mi sveglierò e come prima cosa annuserò l’aria di Roma, e sono sicuro di riconoscerne il suo inconfondibile ed inebriante segnale: è IL GIORNO DEL DERBY!
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