Fuga Guaita

Quella fuga e una vittoria svanita

Ci sono estati che non sono come le altre. Estati in cui c’è nell’aria una carica diversa, in cui senti che all’orizzonte può esserci una svolta decisiva e tutto può cambiare.
Se tifi per la Roma, questa sensazione la porti dentro come una sorella maggiore. Se tifi per la Roma, saprai quant’è bello convincersi che il prossimo sia l’anno buono, sognare la tua squadra in cima al mondo.
Se tifi per la Roma, saprai anche che solo poche volte le favole hanno un lieto fine. Nella nostra storia, i finali in trionfo sono talmente rari da essere impressi indelebilmente nella memoria di ogni romanista, le loro date consegnate al mito: 14 giugno 1942, 8 maggio 1983, 17 giugno 2001.

IL DNA GIALLOROSSO

Ogni squadra italiana porta con sé un valore simbolico che la identifica nell’immaginario collettivo: la vittoria per la Juventus, la pazzia dell’Inter, il cuore granata. E la Roma? La Roma è da sempre passione, speranza e illusioni tradite. Troppe volte, con o senza i favori del pronostico, la Maggica si è battuta fin oltre i propri mezzi sfidando la sorte, e la sorte – rivale di una vita – l’ha condannata. Dove non è arrivata la sfortuna, ci ha pensato spesso la corazzata di turno, sempre invincibile nell’anno “buono” per la Roma: basti pensare alla Juventus di Platini, l’Inter post Calciopoli, la Juventus dei 102 punti di Conte.

Per chi ancora crede nel destino, 14 secondi posti non possono essere frutto del caso: sembrano quasi un codice iscritto nel DNA giallorosso, come l’Europa per il Milan e le difficoltà della Juventus nel massimo torneo continentale.

E se testimonianze dello status europeo di Milan e Juve si ritrovano nei quotidiani italiani già dagli anni ’50, quando i rossoneri ancora non avevano sollevato al cielo la Coppa dei Campioni, l’episodio scatenante per la Roma si può individuare ancor prima, una manciata di anni dopo la fondazione del club di cui siamo innamorati. Quando il gesto inaspettato di tre oriundi argentini cambiò la storia di un campionato e, forse, la storia di una squadra intera.

SOGNI DI VITTORIA

È l’estate del 1935, e per un tifoso romanista è una di quelle estati.
I quotidiani nazionali esaltano la squadra di Campo Testaccio e la indicano come una delle favorite per la vittoria finale. Il mercato ha rinforzato una rosa già forte, arrivata quarta l’anno prima, e la Roma sembra una vera e propria corazzata.

In porta c’è il campione del mondo Guido Masetti; in difesa la stellare coppia di nuovi acquisti: Eraldo Monzeglio e Luigi Allemandi, anche loro campioni del mondo due anni prima. Una mediana solida composta da Frisoni e Tomasi ai lati, con Fulvio Bernardini centromediano e l’italo-argentino Andrés Stagnaro, ex idolo del Racing Club di Avellaneda, come sostituto. La nuova ala destra Renato Cattaneo, con l’estroso Scopelli e il tenace Scaramelli come interni e D’Alberto sulla fascia opposta, va a integrare il formidabile quintetto d’attacco con la stella assoluta della squadra. Si tratta del “Corsaro Nero” Enrique Guaita, capocannoniere dell’anno precedente con il record di gol in un torneo a sedici squadre, ben 28 in 29 partite.

Guaita: una fuga dolorosa

Il fuoriclasse Enrique Guaita

Guaita e Scopelli, prima della Roma (e della fuga)

Guaita e Scopelli ai tempi dell’Estudiantes

L’allenatore di questa straordinaria formazione è il carismatico Luigi Barbesino, che da giocatore era stato il capitano del Casale campione d’Italia nel 1915.

La Roma ha grandi speranze e, almeno sulla carta, appare formidabile”, si legge su “La Stampa” alla vigilia del campionato. “L’inquadratura è saldissima, eppure a Roma non si ipoteca lo scudetto. Forse è la volta che i giallorossi sono veramente attrezzati per conquistarlo”.

LA FUGA

Il campionato finalmente inizia, ma il 22 settembre del 1935, gli spettatori che assistono alla gara inaugurale contro il Torino a Campo Testaccio già notano che qualcosa non va per il verso giusto. La Roma batte i granata per 1-0 con il gol dell’ala sinistra D’Alberto, ma “il Corsaro Nero” Guaita non è in campo. Indisponibile, si legge sui giornali. Al suo posto, gioca centravanti il bresciano Andrea Gadaldi, di professione terzino, all’occorrenza mediano, un cosiddetto “jolly” dell’epoca.

Non si hanno notizie sulle ragioni dell’indisponibilità di Guaita fino al giorno seguente, quando si inizia a vociferare di una presunta fuga all’estero del fuoriclasse assieme agli altri due oriundi della squadra, l’interno Scopelli e il centromediano Stagnaro. La conferma arriva da una telefonata ai familiari dei calciatori, fatta da Nizza: i tre sono arrivati in terra francese e si imbarcheranno a breve su una nave per far ritorno in Argentina.

Fuga per l'Argentina

La motivazione della fuga appare chiara sin da subito: l’Italia sta per intraprendere una campagna coloniale in Etiopia. La dichiarazione di guerra da parte di Mussolini arriverà solo il 2 ottobre di quell’anno, ma il conflitto è nell’aria già da alcuni mesi. Guaita, Scopelli e Stagnaro, in quanto oriundi italo-argentini, temono la chiamata alle armi e scelgono la via più semplice: il ritorno nella propria terra di origine, piantando in asso allenatore e  compagni. Un vero e proprio ammutinamento.

In Italia scoppia lo scandalo: il Littoriale si spinge fino a definire i tre oriundi come dei “manigoldi”, paragonandoli a dei ladri, dando loro degli ingrati incapaci di apprezzare la cittadinanza italiana che gli era stata concessa. L’opinione pubblica si indigna, i tifosi della Roma si disperano e l’allenatore Barbesino si trova suo malgrado a dover gestire una situazione complicatissima.

Si presume che Stagnaro, l’unico dei tre a non essere al centro del progetto giallorosso, possa aver fatto pressioni verso i due compagni spingendoli verso la fuga, ma non si hanno certezze in merito. L’unica certezza è che la Roma è priva dei suoi due più importanti attaccanti e che il regolamento non prevede sostituzioni a campionato iniziato. Barbesino si vede costretto a ridisegnare tatticamente la sua Roma, e sopperisce durante la stagione inserendo talvolta Gadaldi, talvolta il giovane Di Benedetti come centravanti al posto di Guaita, e Otello Subinaghi, onesto mestierante del pallone, per rimpiazzare il talentuoso Scopelli.

Le conseguenze sono ovviamente durissime: la Roma colleziona cinque sconfitte e quattro pareggi nel girone d’andata, e viaggia lontana dalle prime posizioni. I pronostici della vigilia sono solo un ricordo.
Ma la storia della Roma è fatta anche di reazioni d’orgoglio e rimonte insperate: e così i giallorossi si riprendono, incanalando la delusione estiva in rabbia agonistica, e disputano un girone di ritorno strepitoso.

Titolo de "Il Littoriale" sulla fine del campionato

Da “Il Littoriale”

La vittoria in rimonta contro il Palermo all’ultima giornata vede la Roma al secondo posto per la seconda volta nella sua storia (vi dice qualcosa?), a solo un punto dal Bologna scudettato.
I rimpianti sono giganteschi. La squadra conclude con la miglior difesa della Serie A, guidata da Masetti, Monzeglio e Allemandi, ma segna 7 reti in meno dei campioni d’Italia. Non pensare alle 28 messe a segno l’anno prima dal “Corsaro Nero” Guaita, imbeccato dal suo compagno di merende Scopelli, è veramente arduo. I tifosi della Roma vedono svanire un sogno coltivato sin da 9 anni prima, quando tre squadre della capitale scelsero di diventare una cosa sola dando vita a un’eterna storia d’amore.

UNA NUOVA SPERANZA

E così, sullo sfondo di un conflitto internazionale, una nave che si porta via tre giocatori di pallone sancisce l’inizio di una storia di speranze e disillusioni, di passione e sconforto, di imprese sfiorate e cadute fragorose. Una storia di arrivi a un centimetro dal traguardo, quel centimetro che è così piccolo ma pare invalicabile e per questo ci appartiene. Ma forse è proprio questa nostra storia che, quando il momento arriva per davvero e la vittoria finalmente si tinge di giallo e di rosso, rende tutto così meraviglioso.

Amadei

“Il Fornaretto” Amedeo Amadei, campione d’Italia 1941-42

Per questo momento la Roma dovrà attendere ancora altre 6 stagioni, quando sullo sfondo di un conflitto ben più grande di quello italo-etiope, una squadra di giovani capitanata dal grande Amedeo Amadei salirà in vetta al calcio italiano. In quella squadra c’era – casualità – un solo oriundo, Miguel Ángel Pantó, per gli amici Michelangelo. Non avrà contribuito a far risplendere San Pietro come un suo omonimo molto più celebre, ma a lui va comunque la nostra gratitudine. Per essere rimasto nel momento del bisogno, lui sì, un vero figlio adottivo di Roma.

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