“Io se avessi contro mi padre o mi fratello, i calci je li darei lo stesso”.
Sta frase piú de qualsiasi racconto, piú de qualsiasi storia e piú de ogni testimonianza fa capí bene chi era Mario De Micheli.
Un romano, de Trastevere precisamente, romanista, pure se la Roma quando é nato lui ancora nun esisteva, ma romanista ce nasci, indipendentemente dal fatto che la Roma esista o meno.
Ce sta na canzone che è l’emblema de sto concetto, ogni romanista, de qualsiasi etá, sente un grandissimo senso de appartenenza quando canta Campo Testaccio.
Ma quella squadra, quel campo, quelle sensazioni, quasi nessuno dei tifosi de oggi l’ha vissute davvero.
Ma le conosce, avoja se le conosce.
De Micheli scrucchia che é ‘n piacere, ecco, scrucchia, che in italiano sarebbe piú o meno intruppa, contrasta con vigore, na cosa del genere, peró più rustica.
Era uno che badava al sodo De Micheli, uno che la porta avversaria la vedeva a inizio partita e poi nun ce se avvicinava piú.
Lui teneva lontani l’attaccanti avversari, con le buone o con le cattive, e faceva rispettà la maglia che portava, chiedete der Generale Vaccaro e der pizzone che prese da Mario in un derby se nun ve fidate.
Lo chiamavano “er faciolaro”, proprio per evidenziá la sua propensione a risolve i problemi nel modo piú pratico possibile, me punti? Vai per terra, arriva un pallone complicato da giocà, vola fori dallo stadio.
Vaccaro dicevamo, proprio quel Vaccaro li, quello che i tifosi laziali ringraziano da na vita pe nun avé permesso alla Lazio de entrá nella fusione, che poi sarebbe na cazzata ma nun é questo er luogo.
Ecco, Vaccaro era un socio della Lazio, oltre che alto funzionario militare e membro del consiglio della Figc, e se trovava a bordo campo in un derby combattutissimo del 1931.
La Roma se sta a giocà no scudetto che nun vincerà, poi risuccederá sta cosa.
La palla esce, De Micheli corre pe andalla a prende e rimettela in campo, perché la Roma quella partita la deve vince per forza, ma proprio quando sta pe arrivá a prenderla il Generale la calcia lontano, in un impeto di sportività, come la sua carica sportiva richiederebbe.
E li De Micheli scrucchia, sfaciola, stampa na cinquina sulla guancia del Generale.
Na cinquina che nun é solo na cinquina, ma é il simbolo de na Roma che forse nun esisterá mai piú, e non intesa solo come squadra, ma proprio come città.
De Micheli era uno che nun se faceva problemi a da na pizza ad un Generale militare se questo se metteva tra la Roma e na vittoria, ma era pure uno che dopo la morte del suo presidente ha continuato per anni a portaje du fiori sulla tomba, uno giallo e uno rosso, in silenzio, senza di niente a nessuno, perché un romanista vero la Roma la vive pe se stesso, come na sensazione intima e personale, non incontrerete mai du tifosi romanisti che vivono la Roma allo stesso modo, perché nun é proprio possibile, perché la Roma é na sensazione prima de esse na squadra de calcio.
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